giovedì 30 aprile 2015

20 frammenti di gioventù vorace (Md’A) di Xiaolu Guo ( a metà maggio in libreria e in ebook)



Un’intensa sequenza di 20 frammenti, brevi testi intervallati da fotografie che l’autrice stessa ha scattato a Pechino, racconta la ricerca di fortuna della protagonista femminile, Fenfang, la quale, dal suo villaggio contadino natale va a Pechino desiderosa di lavorare come attrice nell’industria cinematografica e televisiva. Nel frattempo, lavora come inserviente in un cinema di Stato, esce con un ragazzo inadatto a lei e vive di spaghetti istantanei e precarietà. In questo particolare testo, Xiaolu Guo tratteggia con efficacia il desiderio di modernità e il paradosso di un paese complesso come la nuova Cina, in cui la gioventù fatica a trovare una dimensione soddisfacente e a realizzarsi pienamente ma non si arrende mai, affamata com’è di futuro.
«Sono rimasta lì seduta da sola per un po’. Osservavo le lische del pesce sciolte nella pentola. Che giornata strana! Xiaolin mi dava l’impressione di essere l’unica persona al mondo con la quale avevo un’intimità. Eravamo come una famiglia – nelle famiglie ci si ferisce sempre. Ben non era la mia famiglia, Ben viveva per se stesso. Un corpo occidentale. Quando io e Ben dormivamo insieme, lui poteva dimenticarsi completamente dell’amore che gli giaceva accanto nel buio. Avvertivo che non sentiva il bisogno di un supplemento di calore da nessuno. I suoi 37°2 gli bastavano. La sua anima dormiva da sola. Dopo aver fatto l’amore, Ben mi voltava le spalle, rivolgendomi la sua schiena nuda. Anche se i nostri corpi erano separati da soli due o tre centimetri, trovavo quella distanza insopportabile. Mi sentivo abbandonata e certe volte, al buio, mi mancava Xiaolin e non potevo farci niente. Mi mancavano le notti con Xiaolin».

Xiaolu Guo. Nata in un villaggio della Cina meridionale nel 1973, Xiaolu Guo è scrittrice e regista. È autrice di romanzi, poesie e saggi, in cinese e inglese, che sono stati tradotti in diverse lingue. Il suo libro più famoso, Piccolo dizionario cinese-inglese per innamorati, ispirato a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, è stato pubblicato in Italia nel 2007 (Rizzoli). Nel 2013 è stata inserita nel “Granta’s Best of Young British Novelists” (con un estratto di La Cina sono io, pubblicato quest’anno dalla Random House), che in passato ha promosso autori del calibro di Martin Amis, Kazuo Ishiguro, Ian McEwan, Zadie Smith. Come regista e sceneggiatrice ha realizzato vari documentari e film, tra cui Once Upon a Time Proletarian, presentato al festival di Venezia, e She, a Chinese, vincitore del Pardo d’Oro al festival di Locarno nel 2009. Vive a Londra dal 2002. Della stessa Autrice, Metropoli d’Asia ha pubblicato La Cina sono io (2014)

mercoledì 29 aprile 2015

Angeli perduti del Mississippi di Fabrizio Poggi. Nuova edizione ampliata e aggiornata. (Odoya dal 4 maggio 2015 in libreria)



«Chi non ama il blues ha un buco nell’anima.» (inciso sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi). La leggenda narra che Robert Johnson strinse il patto con il diavolo a un crocicchio, cedendo la sua anima in cambio del talento per suonare la chitarra come nessuno aveva mai fatto prima. Il blues nacque così: imbevuto fin dall’inizio di magia arcana e spettrale. Proprio per questo ancora oggi le sue formule, i suoi riti e linguaggi rimangono sconosciuti e occulti. In Angeli perduti del Mississippi, Fabrizio Poggi decodifica i meccanismi che costruiscono le atmosfere rapinose e corsare che ammantano la musica del diavolo, e lo fa attraverso una miscellanea di micro-racconti, di frammenti narrativi incastrati come smalti e tasselli di un medesimo mosaico. Un affresco tanto affascinante da assumere i contorni di un viaggio letterario e culturale che odora di zolfo e distillerie, chitarre e demoni, e che porta progressivamente a trasfigurare l’opera in una ballata sulla musica nera. Un suggestivo vagabondare, insomma, che disegna una geografia storico-sociale, oltre che musicale, stupefacente e ricca di spunti. Un libro che, in un’efficace galleria di personaggi, non manca di tratteggiare le vite dei principali alfieri del blues – da B.B. King a Bessie Smith, da Buddy Guy a Elmore James – ma che racconta anche il double talk, la lingua "nascosta" con cui i neri parlavano per non farsi comprendere dai bianchi, e l’hoodoo, quell’insieme di credenze popolari e pratiche magiche o propiziatorie, legato al mondo africano. Angeli perduti del Mississippi mescola allora critica musicale e ricerca antropologica, narrativa d’avventura e di viaggio in una combinazione di linguaggi e ritmi davvero avvincente e imperdibile. Fabrizio Poggi nasce nel 1958 e si avvicina giovanissimo al mondo della musica. Sul finire degli anni Ottanta l’incontro decisivo con l’armonica a bocca, di cui diventa uno dei più noti solisti italiani.  Con la sua band Chicken Mambo e altre formazioni incide dodici album, di cui tre prodotti e registrati negli Stati Uniti, paese che lui ha ben conosciuto grazie a numerosi viaggi, soprattutto negli stati del Sud. La Hohner (la più celebre azienda produttrice di armoniche a bocca) lo ha premiato con un importante Oscar alla carriera.

domenica 26 aprile 2015

Della misantropia: sull’opposizione e il pessimismo creativo di Manlio Sgalambro di Eliana Forcignanò



Manlio Sgalambro si dimostra una volta di più acuto conoscitore del pensiero filosofico occidentale e fine maestro di generi: dalla descrizione all’aforisma, dall’argomentazione sottile al dialogo, Della misantropia (Adelphi, 2012) è un breve saggio – giacché così l’autore stesso apprezzerebbe che lo si definisse, come si desume da alcuni passaggi – che s’inerpica per sentieri impervi nel cui attraversamento (mai risoluzione né scacco definitivo) si consegnano a nuova riflessione temi da sempre dibattuti, ma rinvigoriti dall’originalità di un orizzonte critico che restituisce al soggetto la propria facoltà di opposizione.
Della misantropia è, in tutte le declinazioni, opposizione e insieme pretesto per dar vita a un “pessimismo creativo” che, nel panorama di macerie del presente, vede un’occasione di riscatto e di riappropriazione, poiché io – secondo Sgalambro – non sono solo un ens, ma anche un habens e, in quanto habens, mi appartengo e non posso, costituzionalmente, essere rappresentato da nessuno. La politica e la religione, considerandomi semplicemente un “essere umano” mi hanno depauperato della possibilità di far parte per me stesso collocandomi all’interno di un gregge (e qui Nietzsche suona davvero il sassofono), di una societas che mi vorrebbero contento di essere rappresentato. Tuttavia, io sono irrappresentabile, poiché la rappresentanza politica e religiosa passa attraverso regole stabilite da altri che non hanno la benché minima nozione delle idee di cui sono possessore.
Il concetto di possesso, tanto svalutato da molti filosofi e asceti, è qui rivalutato in senso intellettuale: se Schopenhauer, ricevendo l’influsso delle Upanishad, asseriva che il possesso è figlio della Wille, Sgalambro restituisce dignità all’avere ponendolo in relazione alle idee, queste ultime intese non nell’accezione esclusivamente platonica di Enti-modello, né in quella psicoanalitica di complessi. Le idee che io possiedo sono manifestazioni della mia autonomia cogitante. Se Cartesio parlava d’Idee innate, le idee cui si riferisce Sgalambro sono “i miei attributi”. Lungi dall’essere scollati dal mio essere, questi attributi mi appartengono: l’ens e l’habens non entrano in conflitto, ma si coniugano per respingere la minaccia incombente del fondamentalismo e della tirannide. Alla luce di quanto detto, la misantropia è una risposta ragionevole all’ignorante arroganza del potere che celebra costantemente se stesso – idem dicasi per la religione – e chiede di essere adorato in quanto detentore di una risposta ai bisogni. Quali siano questi bisogni decantati al punto tale da cadere nel patetismo ognuno lo ignora, mentre ciascun individuo sa di non voler essere affatto governato, benché le masse implorino il migliore dei governi possibili: qui Freud avrebbe buon gioco nel porre in luce la libido della folla. Una libido che, in opposizione a Le Bon, il padre della psicoanalisi preferiva individuare in un istinto sessuale dapprima frustrato e, successivamente, sfogato nell’aggregazione in maniera ferina e becera. Un motivo in più per essere misantropi.
In realtà, siamo partiti dalla fine e, come si è detto in precedenza, la misantropia è un pretesto, in quanto non è solo di odio dell’uomo per il suo simile che qui si parla, ma anche di un contemptus Dei che costituisce – o dovrebbe – l’abito mentale di una nuova teologia, anzi di una “moraletta sulla teologia” come l’autore la definisce, parafrasando le parole di Adorno. Nel corso dei secoli, filosofia e teologia si sono incontrate infinite volte: fino a Kant? No, anche oltre, perché l’uomo non ha mai smesso d’inventarsi un atteggiamento di fronte a Dio o, almeno, alla sua idea. La tesi di Sgalambro è che l’interpretazione proposta da Adorno del costituirsi del pensiero filosofico occidentale intorno alla prova ontologica dell’esistenza di Dio debba spostare il proprio baricentro su un’altra questione fondamentale: ossia, l’Io teologico. Più semplicemente – ma la questione si complica, invece, di molto – il teologo. Verrebbe a questo punto da chiedersi dove siano le complicazioni e si risponderà che, come sempre, esse risiedono nelle distinzioni: da un lato, il teologo della tradizione che, seduto al suo tavolo da lavoro ingombro di libri e appunti, trova Dio; dall’altro il teologo che vive e si avvede di attribuire la colpa della sua nascita a Dio. Da ciò, il disprezzo, la radice dell’empietà. L’ateo non nutre disprezzo nei confronti di Dio: non vi crede. Il teologo che viviseziona l’idea di Dio, come uno scienziato agirebbe su una cavia, giunge alla conclusione dell’odio verso l’unica fonte di vita che gli si propone dinanzi. La dottrina stessa, mirabilmente esposta nelle Summae dell’Aquinate, è interpretata alla luce dell’odio: dalla maledictio in ordine ad Deum asserita da Tommaso in virtù della disposizione al male insita nell’uomo (quasi un a priori kantiano), si passa alla maledictio Dei, nell’àmbito della quale, gioca un ruolo chiave la sfiducia: torna il credere a Dio, invece del credere in Dio (Agostino), là dove le preposizioni hanno un significato nel senso del distacco e dell’unità. Posso credere in Dio cercando, come accade a Santa Teresa d’Avila, di accoglierlo in me così che io sia accolto in Lui (l’unione mistica), ma il polo opposto a tale unione risiede nello scacciare Dio dal mio cuore per riservargli l’odio che si merita, avendo permesso la mia nascita (e, di conseguenza, la mia infelicità?). L’odio verso Dio è tutt’altro che un atteggiamento di comodo: la teologia tradizionale che tentava di procurare una spiegazione alla sofferenza era già stata posta a dura prova nei secoli e ricevette un colpo semi-mortale in seguito agli orrori di Auschwitz. Questa teologia che tutto incasellava in un disegno prestabilito era – ed è per quanti ancora vi si affidano – ben più comoda dell’odio verso Dio che, però, non allontana il teologo dal pericolo della santità, poiché ogni disprezzo, sia esso rivolto verso il mondo o verso l’Ente supremo, è una forma di rinuncia, una sorta di rigorosa ascesi che finisce per nientificare il pensiero in un altro dogma. D’altronde lo stesso Dio è stato considerato, nel corso del cammino filosofico, un Ente che, nel momento della creazione, annienta se stesso o – esattamente all’opposto – un Ente che, per esistere, ha bisogno non solo del proprio servo, ma anche delle parole di fede del servo medesimo, pertanto, si ravvisa in quest’ultima tesi quella definizione già in auge presso i medioevali di Dio come relazione, l’unica categoria che gli si potesse attribuire, benché la relazione si esplicasse con un non-essente considerando che gli attributi potevano definirsi solo per via negativa. Dovranno trascorrere secoli prima di arrivare al Deus sive Natura spinoziano che, ugualmente, incapperà nel grande interrogativo sull’unità degli attributi: Sgalambro rammenta in proposito la nozione di “parte” precisando, però, che attributi e parti non sono la medesima cosa. L’attributo può anche essere una modalità (per esempio, la relazione), ma la parte è un vero e proprio frammento del quale Dio sarebbe composto e, se si provasse a rispondere che Dio è sostanza semplice, allora non si vedrebbe come la sostanza semplice, secondo le tesi di Cartesio e Spinoza, affetterebbe l’uomo.
Anche la critica a Kant e Heidegger – da parte dell’autore – è serrata: il primo avrebbe fatto rientrare Dio dalla finestra attraverso la “deduzione soggettiva”, mentre il secondo, nei Beiträge, avrebbe propugnato la reticenza e il silenzio dinanzi al Sommo Ente. Esattamente l’opposto dell’atteggiamento del nuovo teologo, testimone di un’opposizione profonda e radicale a Dio e alla propria nascita. Nella radicalità sta, però, la tanto paventata forma di santificazione.
Nella parte conclusiva, Della misantropia è intessuto di un dialogo fra Epicuro e Colote in cui è sostanzialmente rivista l’idea che gli uomini possano procurarsi felicità e piacere compiendo il bene che, peraltro, non appartiene alla loro costituzione di viventi i quali, per addolcirsi l’esistenza, spesso cagionano volontariamente il male ad altri. L’attenzione di Epicuro è fissa su una pietra: solo le pietre – egli dice – sono felici nella loro impassibilità durante le tempeste e in ogni sorta di calamità naturali. La felicità è questa impassibilità, l’unica che ci sia concessa su questa Terra. Una profonda rilettura dell’epicureismo da parte di Sgalambro che non sembra, però, immune dalla contaminazione dello stoicismo senecano: quando non si può mantenere l’impassibilità – scriveva Seneca – occorre uscire dalla vita e farlo il più presto possibile.
Verrebbe da chiedersi, in virtù delle pagine conclusive di questo saggio, che ammiccano a un certo assolutismo nietzscheano, se Sgalambro fosse in attesa di lettori (lontani, inafferrabili e facili all’oblio) o di discepoli capaci di abbracciare una filosofia, sapendo che si tratta della filosofia di cui avevano sempre avuto sete: la filosofia – conclude Sgalambro – rende “nemici del genere umano”. Un genere, si potrebbe aggiungere, piuttosto effimero che ha rinunciato da tempo immemorabile alla verità chiedendo che gli fossero imposti i paraocchi del potere. Il “pessimismo creativo” di Sgalambro è ravvisabile non solo nel rovesciamento del rapporto ens-habens, bensì anche nella possibilità – non vogliamo definirla “speranza” – che l’habens trovi riscatto dal piattume generale in cui siamo impantanati: il discepolo incarna, forse, questa possibilità, tuttavia senza ergersi latore di un messaggio universale. Perché la filosofia – scrive Sgalambro – è per pochi, per pochi la capacità di dirigere i concetti, come un maestro d’orchestra, dando vita a un’opera degna di questo nome.

venerdì 24 aprile 2015

I ribelli della montagna. Una storia del movimento No Tav di Adriano Chiarelli con prefazione di Erri De Luca (Odoya)



Adriano Chiarelli è autore, sceneggiatore e documentarista. È stato assistente alla regia per Matteo Garrone e Paolo Sorrentino e ha all’attivo collaborazioni con Fox Channels e Rai. Scrive articoli e inchieste per Contropiano e Minima&Moralia. È autore del libro Malapolizia (Newton Comp­­ton 2011), un’indagine sugli abusi della polizia italiana. I dati che accostano la realizzabilità dell’opera alla storia della Salerno-Reggio Calabria. I dettagli delle vicende di mala polizia in Val di Susa. I punti di forza e il fascino di un movimento di massa ed eterogeneo. Nato dai sogni dell’amministratore delegato di FF.SS. Lorenzo Necci nei primi anni Novanta, il progetto Tav inizia ad avere una “biografia” interessante. Adriano Chiarelli, già autore di Malapolizia per Newton Compton, evidenzia l’inutilità e la dannosità (non solo per i valsusini) della Grande Opera, ma il suo lavoro per la prima volta non è stato spinto da logiche “di movimento”. Alcuni sviluppi del movimento contro l’Alta Velocità riportati nel volume sono avvenuti da pochissimo tempo: il 27 gennaio 2015 la procura di Torino ha comminato 47 condanne per un totale di 150 anni agli attivisti No Tav per i fatti del luglio 2013; inoltre ha fatto scalpore il recente processo allo scrittore Erri De Luca, indagato per istigazione a delinquere. Non ritrattando (dichiarò «è giusto sabotare la TAV») firma l’accorata prefazione al volume. Le fonti utilizzate da Chiarelli sono di stampo giornalistico: testimonianze, verbali, testi di interrogazioni parlamentari, intercettazioni e sentenze. Ora che personaggi come Ercole Incalza, come prima di lui Maria Rita Lorenzetti o Emilio Souberan (il poliziotto coinvolto nei tragici fatti che spinsero al suicidio due anarchici) sono interessati da procedimenti giudiziari è possibile comporre una “controstoria” del progetto Tav, che renda l’idea di come alcuni lobbisti abbiano letteralmente fatto carte false per distribuire prebende e posti di lavoro connessi alla realizzazione della linea ferroviaria. Le ragioni del No vengono esaminate razionalmente e fanno miseramente cadere quell’accusa di essere “nimby” (persone che semplicemente non vogliono l’opera nel proprio giardino) che spesso i valsusini si sono visti comminare. Chiarelli ha vissuto per un periodo a stretto contatto con i No Tav e questo l’ha aiutato a capire la natura profonda di una resistenza trasversale, certo con centinaia di pratiche differenti, ma unitaria e capace di fare fronte compatto. Se, dati alla mano, il traffico di passeggeri e merci della tratta già esistente non esige un ripensamento della viabilità, ma il costo di realizzazione continua a lievitare, le ragioni del Sì vacillano. Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, definito da Chiarelli un “ultrà Sì Tav”, ha dichiarato (29 Ott. 2014) che se la Torino-Lione costerà 7 miliardi di euro invece dei 2,9 previsti, allora l’Opera non è sostenibile. Oltre alle questioni giudiziarie, alla storia del malaffare insinuato nelle ditte che hanno gestito i lavori e ai dati finalmente chiari su costi e “benefici”, Chiarelli rende giustizia all’opera di controinformazione che il movimento sta facendo da anni. Per la prima volta in un libro si rende nota con tanto di reportage fotografico l’operazione “Hunter”: un’approfondita indagine (ancora in corso) in cui i poliziotti sono per una volta gli inquisiti, accusati del pestaggio inutile e disumano nei confronti di quattro attivisti. Forse questa volta le indagini arriveranno prima dei rimbrotti dell’Unione Europea come per i fatti della Diaz, ma solo grazie allo zelo dei No Tav. Se si aggiunge il ricorso presentato al Tribunale permanente dei popoli (un organo sovranazionale che ha compiti di monitoraggio sui diritti fondamentali delle popolazioni), si capisce come la natura delle azioni che il movimento porta avanti sia prevalentemente dialettica. Ciò che succede nel "laboratorio politico" della Val di Susa nel bene o nel male ci riguarda da vicino: questo libro aiuta a non disinteressarsene.

Antichi proverbi salentini. Intervento di Gianfranco Coppola



Gian Battista Vico definiva i proverbi «oracoli di verità». Per il Giusti invece, il proverbio era identificabile in un avvertimento, in un detto morale che la vita sapienza del popolo trasformava in una massima di vita. Il termine proverbio deriva etimologicamente dal latino ''probatum verbum''. Probatum ha un'ampia gamma di significati, tra cui provato, saggiato, verificato, esaminato, sperimentato, apprezzato, stimato per buono, reso plausibile. Verbum è traducibile come parola, discorso. Probatum verbum si può rendere in italiano con discorso o parola sperimentata, provata, dimostrata ed in senso più lato come «detto breve, ritenuto come buono per esperienza, che serve come massima, norma, consiglio».
I proverbi quindi, sono dei brevi motti, di conclamata sapienza popolare, che esprimono riflessioni di vita o consigli tramandati da generazioni e sperimentati dalla viva esperienza.

Note per la lettura

Qui di seguito un elenco di proverbi dell'area culturale salentina. Divisi per tema e chiaramente appartenenti al mondo contadino, si è preferito non tradurli o commentarli perché ancora oggi largamente diffusi e conosciuti. Solo qualche termine dialettale arcaico reca a lato e tra parentesi il significato. Tutti i proverbi sono introdotti da parentesi con i termini Lecce, Lecce Sud e Lecce Nord, per identificare immediatamente l'area geografica di appartenenza, intendendo per Lecce la zona di Lecce città e paesi limitrofi, per Lecce Sud i paesi del sud della provincia e per Lecce Nord i paesi dell'arco a Nord della città capoluogo. Proverbi apparentemente simili sono volutamente ripetuti ma evidenziati come varianti. Si è cercato, per quanto possibile, di riportare la grafia del dialetto d'origine. È superfluo aggiungere che la determinazione dell'area di appartenenza è ininfluente nel contesto generale della cultura salentina: tutti i proverbi infatti sono patrimonio culturale del Salento, le cui popolazioni, anche se diversamente stanziate, hanno in sostanza storia, pensiero e costume in comune.

MESI DELL'ANNO

(Lecce Sud) Se sciannaru nu sciannariscia, n'c'è frebbaru ca malepensa.
(Lecce) Se frebbaru nu febbrariscia, marzu malepensa.
(Lecce) Febbraru mienzu duce e mienzu maru.
(Lecce) Febbraru, o ca vau o ca vegnu, capu d'estate e cuta de iernu.
(Lecce Sud) U mese nnanzi bbrile, cu nu pozza mai venire.
(Lecce Sud) Bbrile i ceddi (uccelli) cantene e l'alberi a ffiuririe.
(Lecce Sud) Bbrile: se nu mangi tre vote u giurnu ti llunghesce u cannarile.
(Lecce) Abbrile: cu lu carofalu a mpiettu e lu pede allu fucalire.
(Lecce) Abbrile, tie zzita lassa la cammera e tie ecchia lu fucalire.
(Lecce) Abbrile face li fiuri e masciu (Maggio) nd'ae li unuri.

METEOROLOGIA

(Lecce) Tiempu russu ti matina, o acqua o venterrina (Turbine di vento).
(Lecce) Quantu chiù forte chiove, chiù prestu scampa.
(Lecce Nord) Tiempu chiaro nu time tronate.
(Lecce Sud) Lu sciroccu è lu mantu de lu poveru.
(Lecce Sud) Cielu a pecuredde, acqua a campanedde.
(Lecce) Celu russu, acqua, ientu o frusciu.

CONSIGLI PRATICI

(Lecce) Uegghiu d'ulia, ogne male pigghia ia.
(Lecce) Ndrizza l'arverieddru quanndu ete tenerieddru.
(Lecce Nord) A ddu iti pampane mute, ane cu lu saccu piccinnu.
(Lecce) De Santu Martinieddru, minti alla utte lu spinieddru.
(Lecce Nord) A miessi (Giugno) comu te acchi iessi.
(Lecce Nord) A bbrile (Aprile) nu carru de leune fatte-enire, o pe strucere o pe tenire.

CICLO AGRARIO

(Lecce Nord) De la Nunziata (25 Marzo) la igna è parata.
(Lecce Nord) Quanndu canta la cecala fuci fuci alla culummara, quanndu canta le cecalune fuci fuci allu ceppune.
(Lecce Nord) Quandu ria l'ua e la fica, lu melone se scià mpica.

(redazione a cura di Anastasia Leo)