Una ventina a tavola,
per il pranzo di Pasqua, ben sei bambini e nessuno a declamare un verso.
Nostalgia delle mie performances preadolescenziali? Chi può dirlo? Ho notato
però, ad un tratto, che ripetevo mentalmente: “Io canto la canzon di primavera,/
andando come libera gitana,/ in patria terra ed in terra lontana,/ con ciuffi
d'erba ne la treccia nera.// E con un ramo di mandorlo in fiore/ a le finestre
batto e dico: Aprite,/ Cristo è risorto e germinan le vite/ nove e ritorna con
l'April l'amore!// Amatevi fra voi, pei dolci e belli/ sogni ch'oggi fioriscon
su la terra,/ uomini della penna e de la guerra/ uomini de le vanghe e dei
martelli.// Schiudete i cuori: in essi erompa intera/ di questo dì l'eterna
giovinezza;/ io passo e canto che vita è bellezza,/ passa e canta con me la
primavera”.
Sedici versi in quattro
strofe, quelli di Ada Negri: non i più belli di “Dinin”, dicono ancora oggi
nella sua Lodi, ma ogni volta che è Pasqua questi versi tornano in mente,
perchè legati ad un ricordo personalissimo dell’infanzia. Si era in IV
elementare, anno scolastico 1971-72, ed il mio maestro non ebbe tempo,
impegnato com’era in una carica di amministratore comunale, per farci mandare a
memoria alcuna poesia per la Pasqua. Quei versi di Ada Negri, invece, furono
quelli che mia madre, quarantottenne, mi fece mandare a memoria sfruttando al
massino il poco tempo che aveva per conquistarsi un supplemento di attenzione
da un bambino. Era quando al mattino mi aiutava e vestirmi e quando la sera mi
accompagnava in stanza per andare a letto. “Io canto la canzon di primavera…”,
iniziava sempre lei ed io a ruota, ogni volta migliorando e spostando un verso
più in là l’ideale asticella della conoscenza mnemonica, mentre lei convinta
continuava… Lei che, a sua volta, quei versi li aveva appresi in IV elementare,
nell’anno scolastico 1932/33, su sollecitazione della “maestra forestiera”,
della quale parlava sempre con affetto e ammirazione.
È stato un attimo,
durante il pranzo di Pasqua. Ho pensato che proprio quest’anno il circo dei
media, che detta il calendario degli anniversari degni di essere ricordati, ha
preferito lasciare nell’oblio il 70° anniversario della morte della poetessa
perché solo il giornale on line “Il Primato nazionale” se n’è ricordato, mentre
il 25 marzo successivo su Repubblica.it è stato postato un filmato in cui una
grande Giuliana Lojodice legge dal camerino del Teatro India di Roma “Sinfonia
azzurra”, “una poesia di Ada Negri – spiegano nella didascalia -, prima e unica
donna italiana ad essere ammessa all’Accademia d’Italia”. E penso: non sarà
stata l’etichetta del Ventennio prevalente su quella di un’espressione poetica
al femminile? Di certo è strano che la Negri non venga nemmeno citata da
Prezzolini nella sessanta cartelle della sua storia breve della letteratura
italiana e non trovi posto in diversi manuali di storia della letteratura
italiana contemporanea. Eppure, lo storico della letteratura italiana di
“ispirazione marxista” Giuseppe Petronio, nella sua opera di larga
consultazione su “l’attività letteraria in Italia”, a proposito dell’età del
positivismo e dei cosiddetti “realisti e ribelli” annotò: “Gran fama negli
ultimi anni del secolo ebbe anche la lodigiana Ada Negri (1870-1945). Di
origini modestissime, conseguito il diploma di maestra insegnò nelle scuole
elementari, e divenne celebre per le raccolte Fatalità (1892) e Tempeste (1895)
dal contenuto socialisteggiante e dal linguaggio retoricamente immediato. Più
tardi – aggiunse – ripiegò verso una lirica sollecitata dai moti della sua
sensibilità femminile ed espressa con arte raffinata ed esperta”. Appena sette
righe, non molte in verità, ma sempre meglio di un oblìo forzatamente voluto da
altri. (Ada Negri nella foto)
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