Tra il 20 novembre 1945
e il primo di ottobre 1946 si tenne quello che oggi chiameremmo un
“maxiprocesso” al nazismo. Mayda è stato uno dei grandi interpreti di quel
momento: la sua prosa non solo tiene incollati alla pagina, ma dà anche conto
di tutte le implicazioni di quel momento storico fondamentale. Chiaro e
leggibile, puntuale e scorrevole: è il libro da riscoprire nel settantesimo
anniversario del processo di Norimberga. La città venne scelta per due motivi.
Da un lato per valore simbolico: fu teatro della promulgazione delle omicide
leggi razziali (1935). Mentre dall’altro per ragioni di carattere pratico: era
l’unica città tedesca che poteva ancora fornire, pure nella devastazione, strutture
solide atte allo scopo. Il primo tribunale internazionale
americano-russo-inglese e francese che si occupò di crimini contro l’umanità
nacque nonostante i tentennamenti di Stalin, che avrebbe preferito «la sola
giustizia dei plotoni di esecuzione». Si decise di circoscrivere ai fatti
relativi alla guerra e allo sterminio degli ebrei i lavori di quell’organo
giudicante: altrimenti gli americani avrebbero dovuto rispondere di Hiroshima e
Nagasaki e Stalin stesso dell’eccidio di Katyn (a questo misterioso episodio
Mayda dedica un intero capitolo); inoltre l’art. 8 dello Statuto di Norimberga,
che poi venne applicata negli Usa e in Inghilterra, sanciva la responsabilità
penale individuale e annientava l’appiglio più ghiotto per la difesa: l’adagio
assolutorio “stavano eseguendo gli ordini”. Mayda descrive i nazisti catturati
e rinchiusi sotto stretta sorveglianza nel basamento del tribunale nei minimi
particolari. Tra di loro spiccano i nomi di Göring, il braccio destro di
Hitler, l’Alte Kämpfen Hess dato per pazzo da quando fuggì in Scozia (si rivelò
invece perfettamente savio proprio durante il processo), Martin Bormann così
abbietto da provocare il disgusto anche negli altri imputati, Schacht che ovviò
abilmente al problema del finanziamento degli armamenti, Gusatv Krupp il noto
industriale, Von Papen “il furiere di Hitler”, “Von” Ribbentrop ministro degli
esteri del Führer e Ernst Kaltenbrunner, l’ultimo capo della Gestapo. Quel
momento fu la doccia fredda del risveglio per il sogno malato di questi
efferati criminali. Ancora preda della propria mitomania, molti negarono,
accamparono scuse assurde o si dissero totalmente certi che quella farsa
sarebbe durata poco e le loro gesta sarebbero state oggetto di onorificenze. Ci
furono tuttavia delle eccezioni: Ley, capo dei “Lupi Mannari” le cui ultime
parole furono «tutti quegli ebrei, mioddio, tutti quegli ebrei» si suicidò in
cella. Oppure Hans Frank, il “boia della Polonia”, che per due giorni interi
“continua a confessare, ad ammettere, ad aggiungere particolari, senza
nascondere nulla”. Tra colpi di scena e pochezze umane, il processo ottenne dei
risultati mirabili. Pure senza obbligo di prove come nei tribunali penali
nazionali, il processo di Norimberga svolse un lavoro accurato. Il racconto del
suo svolgimento è un’impagabile sintesi del periodo nazista: la documentazione
e la testimonianza che il presidente Jackson e gli altri “addetti ai lavori” ci
hanno lasciato sono uno dei più importanti moniti da consegnare alle
generazioni future.
Giuseppe Mayda, ligure,
è stato giornalista e studioso di storia del fascismo e del nazismo. Con Nicola
Tranfaglia ha pubblicato un’antologia sulla Seconda guerra mondiale, Come ci
hanno visti (1965). Tra le sue numerose pubblicazioni, per Mursia: I dossier
segreti di Norimberga.
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